STIPSI EMOTIVA

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Ho scoperto di recente che esiste un detto in yiddish che afferma,” il più grande peccato è portare via la neshamà a qualcuno”, la cui traduzione vuol dire che è peccato portare via la gioia, lo spirito vitale o in qualche modo più colloquiale, guastargli la festa. Ma quanto spesso le persone lo fanno e quant’è distruttivo! Quante volte da bambini ci siamo scontrati difronte ad una nostra manifestazione di eccitazione, con una risata sarcastica invece che con un sorriso di comprensione…più avanti nella vita questo senso di spreco si ritrova, quando vorremmo condividere qualcosa di bello con qualcuno e troviamo indifferenza o critiche che gelano il nostro entusiasmo.

Oggi è abbastanza diffuso. Vergognarsi di sentire, invece di godere di questa facoltà fa una grande differenza nella nostra esperienza. Lasciarsi inibire da questa chiusura emotiva piuttosto che apprezzarla. Finire con l’essere come gli altri per non apparire ridicoli. A danno di chi?????

La cosa che mi ha fatto sempre più male nella vita è lo spreco, un senso atavico di dolore all’idea di sciupare le cose. Per cui mi sono sentita sollevata quando ho trovato questa definizione. Ricordo di aver pianto da bambina, perchè mia madre aveva rovesciato un pentolino di latte. Non era grave, ma quella cosa era andata persa per sempre. Tra tutti gli sprechi di cose, ovviamente trovo che lo sprecare sentimenti, emozioni, relazioni, serendipità, esperienze, sorrisi, gesti d’affetto sia lo spreco più grande. In una società iperazionale e tecnologica come la nostra, frenetica al punto giusto da anestetizzare il sentire, imbarazza l’emozionarsi autentico, quanto  il “mostrare un certo aplomb”  in genere è considerato molto smart. Anzi è piuttosto controcorrente esprimere ciò che si sente in un mondo arido e individualistico, nonchè onanistico e narcisistico.

Si trattiene in una sorta di costipazione emotiva di cui ci si vanta persino, cercando così di non percepire il brutale passaggio della vita o il piacevole dipanarsi delle piccole gioie.

Gli stitici emotivi danno poco, con parsimonia, perchè temono che dando di più rischierebbero di perdersi o perdere i loro confini, fatto che sintetizza la difficoltà di stabilire confini costruiti in modo sano.

E’ stato loro insegnato così o così si sono raffigurati  il mondo, perdendo lentamente la spontaneità del dare e darsi emozioni. Si vive negli ap-partamenti ben confinati, che come definisce sublimamente Bauman, sono la metafora della paura dell’altro e la separazione dall’altro. Si è vero, magari in quegli appartamenti ci si connette, ma restando lontani ed affettivamente separati, con la possibilità oggi, ormai leggittimata, di poter mentire normalmente, a proprio uso e vantaggio. Scriviamo di tutto, ma non scriviamo di niente quando comunichiamo distanti emotivamente. Sempre Bauman parla di “congestione di eccesso e spreco e di strategia sostenuta dal credito “Godi e pagherai in seguito”, che rappresenta alla perfezione l’ideologia dilagante sull’uso delle cose e delle persone. Come gli oggetti vanno in disuso più per proprietà derivabili dal consumismo che dal loro reale malfunzionamento, così i rapporti vengono smessi, quando non servono più. Le nostre agende divengono una lista di cose e di persone che dopo poco non ci saranno più. Con la conseguenza di spostare in avanti, in un punto forse invisibile, l’assunzione delle proprie responsabilità.

 

C’è un’alba dai colori spettacolari davanti a me in questo momento. Non trovo il telefono per fotografarla. Aerei l’attraversano segnando dei piccoli fumi bianchi…peccato, avrei voluto condividerla con le persone a cui tengo. Happiness is not real, unless shared.

 

Rebecca Montagnino

 

  • Z.BAUMAN, La società individualizzata
  • B-WEISS, Messaggi dai maestri

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7 risposte

  1. Ale ha detto:

    Se è vero che così ci è stato insegnato, come è vero che l’ambiente (familiare e socio-culturale) è determinante nello sviluppo e nella definizione di un individuo. Allora mi chiedo quando diventa veramente responsabilità di ognuno il fatto di essere in questo modo? Qual è la linea che separa il momento in cui ciò che siamo non dipende più dagli altri ma solo da noi stessi? E fino a che punto si può cambiare/aiutare una persona in cui è stato radicato un certo modo di essere?

    • Rebecca Montagnino ha detto:

      Bella domanda…se l ambiente diviene un alibi per non cambiare, ê ovvio che non si può migliorare la vita di chi per abitudine o resistenza, non vuole farlo…credo che il problema maggiore sia che l abitudine sviluppa nel tempo uno stato di rassegnazione a cui ci si abitua e confonde con la normalità…

      • Ale ha detto:

        Sono d’accordo, ma se si parte dal presupposto che la persona abbia un livello di coscienza e conoscenza di se tale da poter essere consapevolizzato della condizione in cui si trova, in modo da poter decidere di cambiare. Secondo me anche la conoscenza e la coscienza fanno parte di un processo educativo. Quando si parla di malattie organiche, sappiamo che non tutte sono curabili. Forse potrebbe essere lo stesso per le condizioni e le modalità in cui uno vive. Forse ci sono persone che non posso essere consapevolizzate.

  2. Luigi Romano ha detto:

    Sicuramente il condividere è una condizione piacevole, e finanche esaltante; e le ragioni di ciò possono comprendersi alla luce dei diversi aspetti della natura umana da cui ciò discende e dipende.
    C’è da interrogarsi sul fatto che un’emozione non condivisa non possa godersi appieno (happiness is real only when shared ) o addirittura non sia reale “per definizione ” : stiamo forse ratificando che l’essere non può trovare completezza in ciò che prova (e quindi non può contattarsi e non può definirsi nel confronto con l’emozione ) qualora ciò sia non condivIso ?
    Non sto negando il piacere ed il bisogno di condivisione (di cui io per primo necessito e sento vuoto per il piacere mancante ), piuttosto sono a rinforzare la linea dell’attitudine al sentire; anzi, della ri-attitudine al sentire (c’è anche conoscenza ed esperienza attraverso l’emozione ) e non credo si possa derogare da questa fondamentale linea elementare ed archetipica, così che probabilmente i condizionamenti generazionali e comunicativi , come quelli culturali e “gestionali”, ne verrebbero gradualmente indeboliti sul nascere, lasciandoci un vuoto naturale interiore che richiede di essere riempito da sé stesso e non dall’esterno insano e speculativo.
    La ricerca dell’esterno sano -persone, legami,affetti,valori, soddisfacimento, etc.- si orienterebbe in virtù di spinte interiori, di bisogni dettati dall’essere(e dal suo corpo). Da qui credo parta la possibilità e la condizione di consapevolezza. Immaginiamo la differenza che esiste nel masticare e gustare un hamburger : se è stato introiettato come “prodotto” è un conto. …se si ha idea esperienzata del macinare la carne,maneggiarla, impastarla, Salarla, respirare il fumo e la trasformazione della cottura ..è ben altra cosa : non è solo conoscenza accademica… ..si è consapevoli senza tale intento .
    Avvertire il bisogno e la curiosità di ascoltare quel qualcosa che bussa da dentro è indice di una grande dotazione di chi avverte i segnali . Il lavoro di ricerca che ne consegue è più o meno duro a seconda dello stato d’animo e delle condizioni di disagio in cui (o da cui) parte l’impegno alla apertura ed alla pulizia.
    L’obbligo e la ricetta per la consapevolizzazione generale può forse utilizzare gli stessi strumenti dei persuasori occulti che fan pubblicità di non meglio specificata m… da mangiare? o da indossare? o da usare? o….da ..? Eppecchè no!!

    • Rebecca Montagnino ha detto:

      la frase di cui parli la uso spesso, è la frase finale del film “into the wild”. Non credo affatto che la condivisione sia sempre necessaria, anzi oggi assistiamo ad abbuffate di messaggi inutili che richiedono condivisione da qualsiasi chat o social …penso che la felicità sia prima uno stato interiore e individuale, prima che condivisione. Nel post si parla della difficoltà o incapacità di condividere, che nasce dall’impossibilità di sentire. Spesso questo stato viene incentivato dalla cultura odierna e finisce con il diventare uno stato in cui le persone si credono al riparo o si crogiolano. Esiste persino una patologia, alessitimia, dove le emozioni o il loro riconoscimento è impossibilitato e dove non si possono comunicare verbalmente.

  3. Mr.Crocodile ha detto:

    L’ultima frase mi ha riportato indietro in due tempi nel mio passato. Qualche anno fa e molti anni fa. Nella prima situazione contemplavo i colori dell’alba durante i miei spostamenti giornalieri verso il posto di lavoro, nella seconda ero dietro ad una finestra e guardavo il tramonto desideroso di scappare via con la mia moto…
    In entrambe le situazioni era presente il mio desiderio di voler condividere delle emozioni con qualcuno perché ho sempre pensato che condividere un’emozione significa far partecipe qualcuno di quello che si prova (gioia o tristezza che sia). Purtroppo nel passato più lontano (dietro la finestra) questa cosa non era quasi mai possibile e ho troppo spesso ricacciato dentro tante sensazioni.
    Oggi molto spesso mi capita di sentire qualcosa che vuole uscire dal petto e quando è così ho bisogno di mettere in sharing questa cosa con le persone a cui tengo di più…

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