L’IMMAGINE IDEALIZZATA

Ridimensiona il testo-+=

Tempo di lettura: 6 minuti

Parlo spesso del corpo e di come vien vissuto oggi, o forse sarebbe più appropriato dire di come venga plasmato, per raggiungere l’immagine Idealizzata che tanto viene rincorsa. Ho trovato l’articolo sottostante sul sito dell’Ordine degli Psicologi e sono lieta che l’argomento venga diffuso. Alcune tematiche “controcorrenti”, richiedono proprio per questo una maggiore sensibilizzazione; nel caso specifico la focalizzazione su quanto sia deviante ossessionarsi e provare a raggiungere quella perfezione. Innanzitutto quell’immagine condizionata da canoni esterni diventa un profondo condizionamento interno senza che ce ne se renda conto. E’ un’immagine di quello che vogliamo realmente noi o di quello che pensiamo gli altri vogliano? Dentro infatti vi è spesso più un bisogno di accettazione, una paura del giudizio o di essere esclusi se non si è così perfetti.

Tale spinta nasce quasi sempre da una fragilità interiore e si poggia su un ‘identità esterna idealizzata, ancora più fragile, considerato che il corpo fisiologicamente si deteriora ed invecchia. Non so se in questa spasmodica ricerca, non ci sia anche un modo per esorcizzare la morte; allontanando la vecchiaia, in fondo è un pò come voler spostare il più possibile l’idea della morte e della fine. ( a proposito…In questi giorni ho visto il bellissimo film “Arriverderci professore“, che oltre ad essere ben recitato, profondo, ironico, commovente, pone tantissime questioni sulla mortalità e quindi sul reale senso della vita. Parla di esperienze, di autenticità, mai di esteriorità,…forse perchè non è quello di cui abbiamo autenticamente bisogno per vivere?)

Ricordiamo che idealizzare significa “concepire secondo canoni di perfezione ideale”….e in nome di questo vediamo spesso ragazze deturpate da infiniti interventi di chirurgia estetica, con visi e corpi resi ancora più vuoti e banalizzati dal tentativo non solo di essere belli, ma di esserlo tutti allo stesso modo. Stesse forme di labbra, stessi zigomi rialzati, che alla fine proprio per la poca originalità, finiscono per annoiare chi li dovrebbe apprezzare. Hanno perso, perdendo le piccole imperfezioni, la loro individualità. Non si cerca quindi un miglioramento di se stessi, lo scopo è puramente quello di avvicinarsi il più possibile ad un Immagine di “moda”. E la moda decide cosa sia ideale in un dato momento storico…

Per non parlare di attrici che per restare sull’onda del successo, si sottopongono ad ogni sorta di intervento dando un eco dell’immagine di un tempo, ritoccata e talvolta anche patetica. Le punturine di botox stanno diventando una pratica comune anche tra coloro che le rughe ancora non sanno cosa siano;sono molte le diciottenni che con lo stesso principio chiedono come regalo quello di rifarsi il seno.

Ci sono inoltre mamme che vogliono restare giovani, accostandosi alle figlie più come sorelle-amiche che come genitrici, mandando di conseguenza un messaggio altamente condizionante. “La vecchiaia è cosa brutta, punta quindi sulla tua immagine”.

E’ questa società che spinge in modo parossistico il culto della perfezione e della giovinezza, senza insegnare invece che le rughe sono anche i segni della storia di una vita. Peggio ancora c’è nell’uniformità più che un bisogno di perfezione, il terrore di essere diversi. Lo vediamo persino nello sport: i tipi di allenamenti che sono in voga in questo periodo rispecchiano il bisogno di omologazione, rendendo con la la muscolatura un’immagine androgina e simile in ogni donna. Più che ricercare la bellezza si cerca l’appartenenza ad una stereotipo che faccia sentire protetti dall’insicurezza.

Sappiamo che il fenomeno sta interessando anche la popolazione maschile e il culto per se stessi, narcisista ed edonista, rischia di incrementare un disturbo sufficientemente già diffuso. Aumenta così un senso di inadeguatezza fisica, non facendo sentire a “posto” se non si è praticamente vicini alla perfezione ed escludendo, emarginando tutto il resto. Genera inoltre intransigenza anche verso l’altro: io devo essere perfetto, tu devi esserlo. Questi esseri fragili perciò si ritrovano a fronteggiarsi senza essere loro stessi e focalizzando l’attenzione soprattutto su aspetti esterni della personalità. Nell’articolo si afferma infatti che quando vediamo un essere ben fatto, un corpo vitale in realtà non sappiamo niente di cosa ci sia in quella persona. Eppure se da un lato aumentano le sofferenze per relazioni sbagliate, si sviluppa proporzionalmente l’attrazione per il mero e superficiale aspetto fisico. Ovvero se qualcuno piace esteriormente, non significa che abbia la stessa peculiarità interiore: poco importa quindi che carattere abbia, problematiche abbia o qualità abbia. Ci meravigliamo poi se la scelta è sbagliata e se quella persona si rivela diversa da quella che avevamo appunto idealizzato… guardiamo troppo fuori e troppo poco dentro.

Rebecca Montagnino

-iL CORPO CHE VORREI. LA DISMORFOFOBIA A MISURA DIGITAL

Quando il corpo non è percepito come un tutto organico che abitiamo, ma come un oggetto sbagliato, qualcosa che non è come dovrebbe essere, come vogliamo che sia

12 giugno 2019

Il corpo che vorrei. La dismorfofobia a misura digital

Gli occhi troppo vicini tra loro, la fronte troppo alta o troppo bassa, un naso eccessivamente largo, o adunco, o storto, i fianchi troppo abbondanti, le ginocchia troppo rotonde, l’addome o le braccia troppo poco toniche. Potremmo continuare con una lista infinita. Perché infiniti possono essere i difetti che riusciamo ad attribuire al nostro corpo. E può non importare che nel disegno complessivo delle nostre forme le storture che vediamo si perdono e si armonizzano, perché accade che non si riesca proprio a vedere l’insieme, che il corpo non sia percepito come un tutto organico che abitiamo, ma piuttosto come un oggetto sbagliato, qualcosa che non è come dovrebbe essere, come vogliamo che sia. Per l’ossessione che riguarda i difetti del corpo c’è anche un nome: si chiama dismorfofobia, o disturbo da dismorfismo corporeo, ma che raggiunga o meno la visibilità dell’evidenza clinica, certo è che l’attenzione maniacale di controllare la propria immagine corporea è un fenomeno che sta lievitando. Riguarda sia uomini che donne, con un aspetto nella norma, spesso piacevoli, che mostrano un’eccessiva e infondata preoccupazione per determinati distretti o tratti del proprio corpo.

Gli esperti lo considerano una forma di disturbo psichico molto sottostimato. Chi si vergogna profondamente del proprio aspetto fisico, di uno specifico difetto attribuito al corpo, tanto da dedicargli ore e ore di pensieri e infinite strategie di correzione, si rivolge con più facilità ad un chirurgo estetico che ad uno psicoterapeuta. Si chiede, infatti, alla chirurgia di annullare l’anomalia, di aggiustare il difetto, bypassando la possibilità di riflettere sul senso della sofferenza che il difetto lega a sé, privandola di qualsiasi dimensione simbolica e soggettiva. Si ha in mente un modello, un’immagine ideale di come sarebbe il proprio aspetto una volta liberato dal difetto. E se alla fine ci si rivolge alla chirurgia come soluzione, spesso si rimane delusi. Perché non si raggiunge il modello desiderato, perché quel modello è una proiezione di una tensione che racconta un’altra storia. E si può continuare a fare un intervento dopo l’altro, ma l’immagine ideale non la si raggiunge mai, perché si sta collocando la soluzione della sofferenza in una dimora sbagliata. Si sta mettendo nel corpo, oggettivandolo, sezionandolo, parcellizandolo, un bisogno che riguarda la sfera degli affetti.

La sofferenza che può condurre ad attribuire a tratti corporei disprezzati una profonda sensazione di disagio esistenziale ha radici antiche, generalmente connesse con le relazioni primarie, con gli scambi affettivi della prima infanzia. È quindi espressione di un intenso bisogno di accettazione che ha matrice nella storia soggettiva. Certo è che la dimensione sociale può contribuire ad esacerbare il disagio. I modelli che vengono assunti come soluzione sono lì fuori, e hanno le fattezze di qualche modella o di qualche sportivo replicate all’infinito sui canali social e sui media. La digitalizzazione di una parte importante della socialità funge da cassa di risonanza all’operazione di oggettivizzazione del corpo. Lo schermo è una dimensione proiettiva per sua stessa natura. Guardare l’immagine esteticamente accattivante di un corpo non ci dà informazioni sull’energia vitale di quella persona, sulle sue caratteristiche di personalità. Non ci dice se è affascinante o simpatica. Ma la bellezza che si rappresenta si presta alla proiezione del nostro desiderio e della nostra tensione. Nella dimensione virtuale del nostro esserci possiamo anche sperimentare l’ebrezza demiurgica di trasformarci. I programmi per modificare le fotografie sono, in questo senso, uno strumento molto potente. “Snapchat dysmorphia” è il nome che il medico cosmetico britannico Tijion Esho ha attribuito all’ossesione di modificare il proprio aspetto nei selfie attraverso i sistemi di postproduzione delle immagini digitali, nel tentativo di raggiungere quell’immagine di sé che corrisponda al proprio ideale. Il problema è poi che quella immagine non può essere trasferita nel mondo. Che se i filtri consentono di avere occhi più ampi o caviglie più sottili, poi quel comando non funziona nel mondo dell’incontro fisico con gli altri.

Legare l’idea che raggiungere un’immagine ideale sia la chiave per conquistare affetto, attenzione da parte degli altri, successo, felicità, non tiene conto di un drammatico e radicale equivoco: l’essere è sempre incarnato, e il corpo è il luogo animato che ci fa fare l’esperienza di vivere. Essere un corpo è dimensione essenziale dell’essere se stessi. Non si diventa altro perché si è annullato un difetto. Incarnarsi e vivere il proprio corpo animato è esperienza che include vivere e accettare l’imperfezione. Incontrare se stessi e l’altro a partire da lì.Approfondisci questi argomenti:adolescentialimentazioneproblemi dell’umore

Rimani sempre aggiornato.


Potrebbero interessarti anche...

Una risposta

  1. Giuamat ha detto:

    Non sono della stessa opinione.La dipendenza è una debolezza della personalità,che sia un cellulare o una birra.Lo stress, è il traguardo negativo di un eccessivo nervosismo interno in ognuno di noi.La natura ci ha regalato il sesso,ma sembra,sia andato “fuori moda”per molti…………

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

 

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.