NULLA A PRETENDERE

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C’ era una volta Bo. Cresciuto in un paesino che non aveva mai abbandonato se non per brevi gite, non conosceva molto del mondo. Ciò che conosceva era ciò che vedeva ogni giorno. La sua famiglia: il papà che tornava stanco la sera dal lavoro e la mamma che tornava dal lavoro in tempo per preparargli il pranzo. Sua sorella e suo fratello che assistevano quieti la sera al momento della cena, in un silenzio religioso e una compostezza solenne, da non infastidire il papà stanco.

Conosceva la scuola, i suoi amichetti e talvolta aveva uno scorcio delle loro vite, quando veniva invitato a fare merenda nelle loro case.

Conosceva le maestre, poi aveva conosciuto i professori, aveva intravisto persone nei negozi o alla messa della domenica. Lui cresceva e con lui cresceva il suo piccolo mondo.

Quello che notava e di cui non parlava, era il volto insoddisfatto di tutti, l’inclinazione continua alla lamentela e uno strano ed incomprensibile attaccamento al passato. Aveva anche notato che per non sentire nessun fastidio, le persone si anestetizzavano in vari modi, compravano oltre il necessario, vagavano addormentati sui loro telefoni, assumevano ogni tipo di sostanza, bevevano, mangiavano troppo, restavano ipnotizzati per ora davanti alla televisione.

Aveva tentato di parlarne una volta alla madre e lei mentre mandava giù una delle sue infinite pillole, lo aveva guardato con occhi tristi e spenti e gli aveva risposto :” Siamo così perchè le cose sono così”…” Se avessi avuto una famiglia diversa, se fossi cresciuta in un altro ambiente, se avessi studiato ciò che mi piaceva, se lo stato fosse diverso, se la società fosse migliore”.

Bo era rimasto impressionato dall’uso massiccio dei congiuntivi e non aveva comunque trovato la risposta che cercava. Era uscito a giocare a basket da solo, come spesso accadeva, interrogandosi ancora di più su quel senso ineluttabile di impotenza.

Passarono i mesi e poi gli anni e non domandò più nulla a nessuno, se non a se stesso. Fu così che un giorno nel vagabondare palleggiando e tirando calci al pallone nelle vie assolate del suo paese, lo buttò per errore al di à di un muro. Quando realizzò che nessuno passava si arrampicò e guardò dall’altra parte prima di scavalcarlo. Quello che vide non era poi così diverso da ciò che vedeva, c’era una casa con un giardino, dei fiori, delle persone che prendevano il caffè chiacchierando. Quello che era diverso era il senso di movimento, di dinamicità che proveniva da quel contesto. Era come se quel mondo fosse a colori mentre il suo era in bianco e nero. Rimase a guardare con sorpresa e decise di non chiedere indietro il suo pallone, avrebbe così avuto un pretesto per riaffacciarsi di nuovo.

Non raccontò a nessuno della sua scoperta, cercò di indagare tramite gli insegnanti e la sua famiglia con molta riservatezza, su quella presenza insolita. Era come se la sua geografia si fosse estesa per un momento, la sua mente si fosse affacciata su qualcosa di nuovo che non conosceva, ma che gli piaceva, perchè stimolava la sua curiosità.

Così non passava giorno in cui nn andasse a sbirciare al di là del muro di cinta, anzi fece lo stesso con altri muri e ogni volta ne scendeva avendo imparato qualcosa di nuovo, ad esempio quelle persone parevano più leggere quando si muovevano e anche se da lontano, poteva avvertire che il tono della loro voce era più musicale di quello a cui era solito assistere.

Finchè un giorno prese coraggio e decise di valicare il muro, deciso anche ad uscire da quella zona di sogno in cui è facile immaginare un mondo migliore. Quel giorno i ragazzi dell’altro lato del muro, giocavano a loro volta a pallone nel giardino, uno di loro scorse la sua testolina affacciata che li osservava e attese che si presentasse. “Ciao sono Bo, abito al di là del vostro muro e ho mandato il pallone nel vostro giardino.” “Lo so, me ne ero accorto rispose il bambino che lo stava fissando. Vuoi venire a giocare con noi? ” “Si “e per la prima volta Bo entrò in un mondo diverso.

Quando si fermarono di giocare, domandò al ragazzo che lo aveva invitato, “come si chiama questo posto?” “Nulla a pretendere.” ” Ma non è il nome per un quartiere o una città, no, infatti è il nome con cui le persone decidono di vivere. Chi abita da questo lato ha firmato un contratto per vivere qua. Come vedi non siamo diversi da voi, le nostre case, i nostri giardini, i nostri vestiti, i nostri giochi si somigliano. Anche da questa parte le persone hanno avuto ed hanno vite simili alle vostre, spesso difficili, genitori che non se ne sono presi cura abbastanza, hanno sofferto anche loro, solo che hanno abbandonato l’idea di non poter andare avanti se non riprendono ciò che secondo loro era giusto avere o ciò che sarebbe giusto in questo mondo avere.

Non è questione poi di giusto o sbagliato, è così che vanno le cose, la differenza è che per andare avanti leggero, devi lasciarti alle spalle quell’intreccio di rimpianti, compianti, speranze e darti da fare con quello che hai ora. Devi smettere di riempirti la testa di doverizzazioni sul mondo, confondendo i tuoi desideri come fossero diritti. Non ci sono più assolutismi o convizioni irrazionali, devi aprire la mente e lasciar andare.

Non c’è più spazio a quel punto per una sorta di richiesta di risarcimento dei danni, quello che è stato è stato, a nulla vale vivere così, si finisce insoddisfatti e perennemente tristi. Se guardi indietro non vai avanti, devi decidere ad un certo punto il nulla a pretendere e non voltarti a rimpiangere.

Fu come se per Bo si schiarisse il mondo per la prima volta, tutti i pezzi del puzzle si unirono, le domande trovarono una risposta. “Vuoi il tuo pallone? “

Lasciò quindi il suo pallone lì nel nuovo mondo e il giorno dopo scrisse un tema dal titolo “Nulla a pretendere“, aprì il libro di geografia e pensò a cosa volesse fare davvero della sua vita.

Rebecca Montagnino

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