CHIEDERE AIUTO NON E’ DA DEBOLI.

Ridimensiona il testo-+=

Tempo di lettura: 6 minuti

“La mancanza di informazioni è anch’essa informazione” R. Bandler

Sfondiamo questo pregiudizio una volta per tutte: in terapia vanno soli i pazzi (convinzione passata), o i deboli (convinzione recente). Chiedere aiuto, imparare a conoscersi e a capire i processi interni che ci governano, non è sinonimo di fragilità, al limite lo è di coraggio. Anzi, chi non vuole ammettere l’umana natura del suo essere e la sua fragilità, è chi che non vuole vivere consapevolmente, pertanto colui meno temerario in realtà. Chiedere aiuto inoltre e forse prima di tutto, è un atto di grande responsabilità verso sè stessi e verso gli altri: verso la nostra vita e il nostro benessere come verso quello, che con il nostro malessere, creiamo in chi ci sta intorno. Soprattutto in un momento critico come questo della pandemia, l’aumento della domanda di aiuto psicologico è un dato significativo. In teoria la pandemia è stata un lutto concreto o almeno emotivo per tutti, la richiesta da parte del nostro sistema nervoso di trovare punti di ancoraggio, laddove ci sentivamo persi, è divenuta più pressante. Forse quei punti di riferimento erano in parte fittizi anche da prima, ma la destabilizzazione è stata talmente forte interiormente da farci ricercare un senso di sicurezza con più intensità. E questo come ho sempre sottolineato è stato importante per la nostra persona, quanto per il contagio emotivo che nel bene o nel male appunto, ne poteva conseguire.

IL CORAGGIO DI INCONTRARE SE’ STESSI. Il coraggio non è assenza di paura, quanto consapevolezza di averne, è la convivenza con la propria umana vulnerabilità e con quella dell’esistenza intera. Chiedere aiuto è il primo passo semmai, per voler affrontarla. E’ entrare nella famosa caverna buia ed essere disposti a vedere fino in fondo chi si è, senza scuse o alibi, senza meccanismi di difesa, scrutare la nostra Ombra e incontrare veramente la propria persona.

Il grado di determinazione che si impiega per svelarsi, analizzarsi, varia da persona a persona, ma tanto più ci impegniamo ad uscir fuori dal nostro guscio protettivo ( o dalla nostra corazza), tanto più otteniamo da noi stessi.

Se un tempo vigeva la convinzione che solo i disturbati di mente andavano dallo psicologo, ho visto questa diceria fortunatamente dissiparsi negli anni. Resta invece ancora quella che associa i problemi psicologici alla debolezza caratteriale purtroppo; purtroppo perchè questo rallenta il momento in cui si decide di prendere il primo appuntamento, permettendo nel mentre ai problemi di consolidarsi, agli schemi di sclerotizzarsi e rende il lavoro da fare più lungo. Vale ciò che vale in fondo per tutti i problemi, prima si affrontano, più facile e rapida è la risoluzione

LA STIGMATIZZAZIONE DELLA FOLLIA.

Preferisco la follia delle passioni alla saggezza dell’indifferenza” Xavier Dolan

Probabilmente questa forma di stigmatizzazione è quasi del tutto sparita, oggi ci sono persino le giornate mondiali per i problemi psicologici, c’è molta più sensibilizzazione e facilità ad ammettere che c’è qualcosa che non va dentro di noi, forse c’è anche maggiore attenzione al benessere, alla salute, come dimostrano i numerosi CORSI DI CRESCITA PERSONALE o di neuromiglioramento come vengono anche chiamati!!!. Non a caso negli ultimi anni mi è capitato che qualcuno mi contattasse desideroso più che di curarsi, di conoscersi per vivere meglio, per valorizzare le proprie risorse, per evolvere in pratica.

Mi torna in mente la famosa affermazione di Richard Bandler per cui sappiamo di più sul libretto di istruzioni di qualsiasi apparecchio tecnologico ad uso domestico (per non parlare degli smart phone), di quanto conosciamo il funzionamento della nostra mente. E mi stupisco sempre quando qualcuno che viene in terapia non si è documentato prima (o l’ha fatto in modo spicciolo navigando sul web), nè si documenta durante, sui processi dell’anima, su come dia poca importanza ai suoi sogni, su quanto sia scemata la capacità introspettiva in generale. A volte l’unico tentativo di soluzione è stato quello di far finta di niente

Di recente ho visto un film, “Il ballo delle pazze“, in cui viene descritta la vita nei manicomi un secolo fà. Oltre ad essere un film toccante, alla fine mi ha commosso l’idea di poter lavorare affinchè le persone oggi non vadano più in quei posti, che non ci siamo proprio più quei posti; che ci siano invece percorsi alternativi che non implicano nemmeno più l’assunzione di farmaci. Che le tecniche, gli approcci, si siano evoluti, sofisticati a tal punto da sostituire quando è possibile e spesso lo è, un farmaco che riattivi certi processi interni al posto delle medicine. Tutto questo è miracoloso in qualche modo e quando si dice che la psicologia non ha fatto progressi, forse non si conosce o non si vuole vedere tutto questo.

L’INTERIORITA’ SCOMODA.

Le cornici psicologiche influenzano il modo in cui sperimentiamo e interpretiamo una situazione” R.Dilts

Di fatto nell’ultimo secolo i casi di “follia” (termine popolare per indicare un insieme di disturbi vari) sono diminuiti, mentre sono aumentati drasticamente quelli di depressione, ansia, insieme a molteplici situazioni di dipendenze varie e di disturbi di personalità. Nelle prime due situazioni c’è da notare che l’ansia e la depressione riflettono probabilmente il malessere di questa società; addirittura come sentivo ieri in un corso sul significato esistenziale delle emozioni, forse nascondono proprio questo scollamento voluto o conseguente che sia, dalla realtà psichica.

Non si accettano più certi stati, non si accetta più il “rallentamento” dovuto alle sofferenze esterne ed interne, si vorrebbe che le emozioni fossero un qualcosa da congelare per essere consumato quando è il momento “giusto”. Passate nel microonde e scaldate a piacimento e possibilmente solo quelle positive. Le emozioni sono considerate un segno di debolezza oggi, chi le prova è visto come un debole, chi le manifesta, come un disagiato. Quando in verità non sentirle è come vagare di avere una gamba sola, come si può camminare bene così?

A.Ellis, famoso padre della Rebt, noterebbe di sicuro un’attuale tendenza a nevrotizzare i sintomi con doverizzazioni e assolutismi circa la presenza di emozioni, pensieri ritenuti insopportabili, che “non dovrebbero esistere ed intralciare il proprio percorso”. Abbiamo dimenticato invece che questa è semplicemente la vita e come diceva Heidegger dobbiamo imparare a convivere anche con le “scomodità interiori”.

LA TERAPIA DEVE FARE STARE MEGLIO.

“Porto addosso le ferite delle battaglie che ho evitato”. F.Pessoa

Alla lunga si, anche in media, ma la terapia deve anche essere qualcosa di scomodo; qualcosa che ci facci uscire dalla nostra “comoda” confort zone. Di domande che altrimenti non ci faremmo, di visoni che altrimenti non avremmo, di di parti di noi che non ci piacciono, di presa di coscienza dolorose, di ricordi rimossi che tornano. E’ solo attraverso questa consapevolezza, attraverso una lente nuova e più obiettiva del nostro e dell’esterno mondo che possiamo conviverci.

Per arrivare a questo punto occorre scavare, a volte con le unghie, a volte con le lacrime, a volte anche con un sorriso, ma armati sempre i di coraggio. Perchè è quello insieme a una dose di profonda umiltà, la quale forse stona in un’epoca dove predomina l’ arroganza, che permette di arrivare ad una conoscenza realmente profonda di noi stessi. Senza tutto questo, senza lo svisceramento reale o il profondo impegno, si rischia solo di stagnare superficialmente nella comprensione di certe parti, che restano pertanto irrisolte perchè non consapevolizzate.

Molto spesso la seduta viene scambiata con una chiacchierata settimanale, dove si elencano fatti come liste della spesa, come sfoghi per qualche accadimento, dimenticando che è semmai il vissuto ed il significato dei fatti ciò che conta. Così come sono i temi presenti in ognuno e diversi per ognuno, che rendono il lavoro funzionante.

C’è una grande differenza tra conoscere e consapevolizzare; non a caso sono due aree cerebrali che vengono attivate e in questi processi. Per attivare la seconda vengono coinvolte aree corticali più profonde, bisogna scendere di più, perchè non è solo una comprensione dei contenuti quanto un sentirli. Talvolta non bisogna solo sentirli o per meglio sentirli, occorre esperirli.Se non c’è un’esposizione ai problemi, non possiamo testare i nostri cambiamenti, nè tantomeno i nostri risultati L’impegno che ci si mette è un primo segno di amor proprio e di cura che si inizia ad avere verso se stessi.

CORAGGIO O PRESUNZIONE?

Non sono quindi i deboli che vanno in terapia, è arrogante semmai pensare il contrario e sentire l’onnipotenza di poter risolvere e vedere tutto di sè da soli. Anche perchè quello che fa la terapia è mostrare quegli aspetti disfunzionali che sono tali perchè invisibili ed inconsci, insegnando alle persone, dando loro strumenti di conoscenza e pratici, affinchè si possano aiutare da soli in seguito. Il vero lavoro infatti non è l’ora a settimana, ma l’insieme delle cose, dei pensieri, dei cambiamenti, che si fanno nel restante del tempo. Per questo è fondamentale non aspettare troppo, non avere eccessivo senso di onnipotenza e sentire che passerò, che da soli possiamo farcela. E’ molto più costruttivo riconoscere che c’è qualcosa che non va e chiedere aiuto, affincè il problema non diventi più serio. Non è detto che ciò che in genere funzioni, funzioni sempre, talvolta c’è bisogno di mettere in discussione un pò la nostra vita, le nostre relazioni e quando non lo facciamo periodicamente per paura, alla lunga la sola via che trova la nostra psiche per farsi sentire, è crearci una rottura. Quella può essere allora una grande opportunità pe rimparare a vivere meglio.

https://www.today.it/benessere/salute/quando-andare-in-psicoterapia.html

USCIRE DALLA CONFORT ZONE.

Non si può risolvere un problema con la stessa mentalità che l’ha generato”. A.Einstein

Forse questo è uno degli aspetti che piace meno, il separarsi da quell’identità seppur malfunzionante che conosciamo bene, da quella sorta di limbo/culla anche quando è una prigione. Una sindrome di stoccolma con se stessi in qualche maniera, che forse è uno degli aspetti per cui si molla più spesso; quando si scopre che per raggiungere la vetta costa fatica, impegno, rinuncia, responsabilità, che implica strapparsi dalla pigrizia e dalla calda comodità, spesso ci si ferma. E’ vero la terapia deve farci uscire dalle sicurezze che abbiamo, anche perchè se restiamo allo stesso livello in cui si sono create, non vediamo soluzioni. Allo stesso modo è vero che richiedono una capacità di erodere quella bolla di protezione con cui abbiamo costruito la nostra realtà e questo può portare disagio, darci il desiderio di allontanarci da un tale cambiamento. Eppure tutto questo è un grande dono che ci regaliamo, rendendoci liberi, umani, vibranti e migliori per chi ci sta vicino.

Rebecca Montagnino

Potrebbero interessarti anche...

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

 

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.