PER COSA VALE LA PENA VIVERE?

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Tempo di lettura: 5 minuti

Questa volta un pò come la scorsa, ho scelto un video che avevo visto qualche giorni fa e che mi aveva particolarmente scossa sia per la sua bellezza, per la sua musica, ma soprattutto per il suo contenuto. Era un pò il sunto di ciò che sentivo e quindi più che un accompagnamento alla lettura, è un preludio al significato che cercherò di passare nel post di questo mese.

Quando molti anni fa mi laureai, avevo in mente che la mia sarebbe stata una professione d’aiuto, che lo resta ovviamente e fortunatamente. Non immaginavo però che avrei dovuto motivare, o insistere, piuttosto che convincere a star meglio. Come ho scritto più volte ricorriamo alle medicine, facili da prendere infatti e veloci nel risolvere, meno ricorriamo ad intraprendere qualcosa che richieda impegno. Fin qui, per quanto poco assennato dal momento in cui si sta male attendersi che la cura cada dal cielo, sebben sia un pò assurdo, ci siamo ancora. Molto spesso invece il problema si sposta addirittura dal come stare meglio, sul perchè? -Perchè dovrei cambiare, lavorare su di me? Non scappo dall’Ucraina, la mia salute tutto sommato è normale, conduco una vita tranquilla, perchè una volta che ho “risolto” ciò che mi faceva star male, quindi placato l’ansia, migliorato lo stato depressivo, iniziato un corso di nuoto, fatto shopping, cenato con gli amici, dovrei fare qualcosa di più? E qui sorge tristemente la mia di domanda: perchè le persone si accontentano?

ACCONTENTARSI Dove per contentarsi non si intende godere di ciò che si ha, quanto rassegnarsi, non facendosi domande scomode che implicherebbero risposte forse ancora più scomode. Perchè mi chiedo ogni giorno e sempre più frequentemente da anni, ci si accontenta di non star bene, fisicamente o psicologicamente che sia, di non esser liberi mentalmente, di fare di una difficoltà una tragedia o di una tragedia un’inezia che si preferisce nascondere, di vivere con rassegnazione in attesa che finisca il giorno, di non essere appassionata di nulla, di vivere con rari entusiasmi, di non ricordare quando siano stati gli ultimi entusiasmi, di vivere in modo piatto, senza emozioni, senza grandi sentimenti, senza slanci, senza lottare per qualcosa, senza un senso, senza una direzione, senza un equilibrio.

Le motivazioni in genere o nascono dal piacere o dalla paura. Quindi nel migliorarsi o nell’uscire da uno stato di malessere- Ma se tutto sommato se lo stato di malessere si trova nel mezzo, nel così e così, dove non c’è un vero dolore, una vera privazione di libertà e nemmeno una vera ragione per cui lottare, un qualcosa la cui assenza ci rende la vita insopportabile, forse non nasce la motivazione a star meglio. A volte nè il male, nè il bene sono così forti da far sentire che ci si sta accontentando.

Di cosa non possiamo realmente fare a meno? Per cosa morire sarebbe drammatico, cosa ci mancherebbe?

Queste domande di sicuro ricordano i quesiti della filosofia esistenzialista, domande che pervadono la vita di ogni essere umano, in ogni singolo momento della storia. Eppure trovano risposte più facili e spontanee laddove ci sia una situazione concreta come una guerra o una malattia o una passione da perseguire; il mondo materialista come lo è diventato, è popolato da sentimenti fievoli e paure che vengono esorcizzate in mille modi senza dar spazio e tempo a consapevolizzare davvero su cosa stiamo facendo della nostra vita. Non a caso ho scelto questo video

I MOTIVI PER CUI CI SI ACCONTENTA. Vi deluderò dicendo che tra i primi motivi della top ten non c’è la ben giustificata bassa autostima, spesso si tratta piuttosto di indolenza, pigrizia, attaccamento alla confort zone, innamoramento del proprio vittimismo che ci evita il di-sconfort : quello di uscire dalla nostre abitudini e di esporci, rischiando la disapprovazione, il fallimento o l’errore (il giudizio, sempre il giudizio; il perfezionismo, sempre il perfezionismo!). Situazioni a lungo discusse nel blog che eviterò di ripetere per non annoiarvi.

Si resta perciò nella terra di nessuno, procrastinando a chissà quando; in attesa di un segno dal cielo e attendendo il Godot della motivazione. Ciò che resta è che non ci si smuove, ma ci si accontenta. Se la motivazione non nasce spontanea, cioè se non c’è la voglia, è chiaro che manca l’obiettivo e il carburante per raggiungerlo. Talvolta manca persino la curiosità di affacciarsi fuori e vedere che quello che ci rimane difficile, è per molti facile, che alcuni hanno strategie funzionanti o che altri vivono di entusiasmi. Confrontarsi rischierebbe di metterci di fronte la nostra decisione di non muoverci, dello spreco probabilmente a cui volontariamente ci pieghiamo.

La nostra società narcisista prolunga all’infinito la fanciullezza e l’adolescenza, assumersi perciò la responsabilità di stare meglio equivarrebbe ad assumersi la responsabilità della propria vita, quando capiamo che dipende da noi e smettiamo di aspettarci che arrivi da fuori la motivazione o la spinta (nonchè smettiamo di addossare all’esterno la responsabilità). Non solo, come sappiamo bene la comodità è diventata un valore cardine che ci spinge con mille giustificazioni a lasciare le cose come stanno, quindi comodità e deresponsabilizzazione divengono più importanti della ricerca del piacere stesso. Anzi in alcuni casi superano il piacere del piacere stesso e pur di non muoversi il desiderio di stare meglio, si affievolisce fino a bloccarsi.

Molto spesso inoltre l’Ego richiede qualcosa e il nostro Io richiede il suo opposto, o non sa davvero cosa vuole e cosa lo motiva. Chiaramente in questo caso la necessità di approvazione fa il suo gioco, in quanto ci distacca dai nostri bisogni e motivazioni reali, anzi dal momento in cui il Sè idealizzato non può soddisfarsi in tutta la sua perfezionante magnificenza, può subentrare un sentimento non solo di indifferenza verso ciò che era inizialmente importante, quanto di distruttività verso di sè e verso tutto il mondo-

JUST DO IT.L’altro modo per cambiare quando manca la motivazione, è disciplinarci, ripetere con costanza pratiche diverse che a lungo andare cambiano atteggiamenti mentali e comportamenti. Ma anche qui fioriscono alibi, scuse, giustificazioni che sottendono la non volontà di impegnarsi e di migliorare. Non sempre dobbiamo aspettare di avere voglia, a volte dobbiamo farlo e basta, per il “semplice” onorare la vita. Perchè a noi magari basta poco, mentre chi vive guerre o malattie è realmente impossibilitato

LIVING: dare un senso alla propria vita. A farmi riflettere ulteriormente su questo concetto è stato anche il film Living di Oliver Hermanus, sceneggiato magistralmente da Kazuo Ishiguro, remake del film di Akira Kurosawa Vivere, ispirato alla novella di Lev Tolstoj La morte di Ivan Ill’ic. L’opera probabilmente nata da una crisi spirituale dell’autore, narra la storia di un uomo preso dalla vita mondana e poco incline all’introspezione; un semplice incidente gli fa rivedere di colpo, messo difronte alla morte, la scala dei suoi valori. In questa versione cinematografica, il protagonista si ritrova a fare i conti più o meno con il vuoto con cui ha vissuto la sua esistenza, cercando di recuperare alla fine dei suoi giorni, il valore della vita stessa. Tutto è molto contenuto ma porta a scavarsi dentro, anche la riflessione sul senso della vita nasce nei suoi dipendenti, facendo sopraggiungere un nuovo senso di responsabilità.

Molto toccante è il rapporto che crea con una sua ex dipendente, così opposta a lui, aperta. La sceglie perchè lei gli può insegnare a vivere, lei così affamata della vita, come la definisce, rappresenta ciò che lui non è mai stato, imprigionato nel suo rigido contegno.

Ebbene mi chiedo sappiamo per cosa viviamo? Sappiamo per cosa vale la pena alzarci, fare sacrifici, faticare? Abbiamo una passione che ci spinge fuori nel mondo, a migliorarci, a cambiare, ad essere lo scopo del nostro lottare o l’oggetto del nostro amare? Prendiamo mai a modello persone che hanno scelto di uscire il più possibile dalla loro confort zone, di rinnegare tutto ciò che è facile, per vivere il più intensamente possibile?

Secondo voi invece perchè ci si rassegna e per cosa vale la pena vivere?

E con queste domande vi lascio con un video che completerà tali riflessioni di Paolo Crepet.

Rebecca Montagnino

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2 risposte

  1. Marco ha detto:

    Ciao Rebecca e grazie per l’articolo, ricco come sempre di spunti di riflessione e stimoli.
    Leggerlo mi ha provocato emozioni diverse: senso di colpa perchè temo di non fare abbastanza per vivere una vita piena e appagante: punge in particolare quando sento parlare di autodisciplina; tristezza e rabbia nel ricordarmi che ho avuto una passione bruciante (lo storytelling) che però adesso non brucia più così tanto (ma non si è spenta!); orgoglio nel riconoscere che quella passione l’ho provata e non ho mai abbandonato la sua ricerca; dubbio nel domandarmi se posso essere soddisfatto del mio impegno e dei miei progressi: forse no, non posso essere soddisfatto, e per questo l’articolo (e ogni nostra conversazione e incontro) mi ha trasmesso lo stimolo a fare di più, ad allinearmi con il comportamento ideale che illustri, perchè per quanto sia bruciante, devo ammettere che vivere nel comfort e senza rischi è… stagnante e insostenibile.
    Perchè ci si rassegna? Immagino ognuno abbia i propri motivi, nel mio caso la rassegnazione è venuta dopo l’ennesima sconfitta, dovuta all’autosabotaggio: essermi convinto che semplicemente ho scelto la passione sbagliata, ho anelato a un modo di vivere che richiede un coraggio e una forza che io non ho. L’aver perso la fiducia in me stesso.
    Ostacolo può essere la paura: dell’ignoto, del prendere rischi, del prendere decisioni che creano situazioni con le quali si deve convivere in futuro.
    Può intimorire la consapevolezza che vivere pienamente significa anche vivere veloce, sotto pressione, perchè ogni cosa che piena la tua vita richiede poi attenzione e manutenzione.
    Per cosa vale la pena vivere? Molte cose, immagino: persone, situazioni, passioni, emozioni.
    Nel mio caso faccio fatica a identificare qualche ragione specifica: in questo momento per me vale la pena vivere per scoprire se troverò qualcosa per il quale valga la pena vivere!
    Un atto di fede, quindi, credere in qualcosa che non è detto che esista, non è detto che accadrà. Più facile da fare quando si è giovani e ancora convinti che le cose andranno per il verso giusto, meno facile quando ti accorgi che le cose sono andate in un altro modo, nonostante i tentativi e… la fede!
    però una volta esposti alla verità, cioè che la magia, la vera vita è fuori dalla comfort zone, diventa molto difficile far finta di niente: questa idea pesa sulla coscienza.
    Questa nuova consapevolezza può avere, a mio avviso, diverse conseguenze: freeze, fight, o flight. C’è chi si fermerà a valutare la situazione, prendendo tempo; chi abbraccierà questo principio e si tuffarà nel flusso; chi sarà sopraffatto dalla paura, dal senso di inadeguatezza, da brutte sensazioni che possono portare al rifiuto, all’inibizione, alla rimozione, al fare di tutto per non ammettere la verità dolorosa di star sprecando la vita.
    Forse questo livello di intensità esistenziale, di pienezza, non è alla portata di tutti. forse non deve esserlo, deve rimanere un traguardo prezioso accessibile solamente ai pochi che scelgono di raggiungerlo. Grazie di nuovo per l’articolo!

    • Rebecca Montagnino ha detto:

      Innanzitutto sei giovane!!!! ancora puoi se vuoi trovare una nuova, molte passioni, rispolverare una vecchia e vederla sotto occhi diversi. Io penso a chi si trovi difronte alla fine, cosa può dirsi una persona se potesse tornare indietro e rivivere tutto daccapo? forse che la vita piena, avendone una sola certa, la rischierebbe…grazie a te! omn quanto al senso è sempre un atto di fede, se fosse sicuro, non sarebbe tale, non sarebbe uscir fuori dalla confort zone..

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